La teoria dell’attaccamento e la sua influenza sul sistema immunitario

PSICONEUROENDOCRINOIMMUNOLOGIA

L’influenza del sistema di attaccamento sul sistema immunitario

Le prime fasi della vita hanno una influenza significativa sulle caratteristiche psicobiologiche dell’adulto e quindi sulla salute e la malattia.  Questa conclusione è resa possibile dal convergere di due indipendenti e lontani filoni di ricerca, l’uno in ambito psicologico e l’altro in quello epidemiologico, che sono venuti a maturazione negli anni ’70 e ’80 del secolo scorso e che oggi trovano nell’epigenetica la base molecolare delle scoperte.

L’innovazione in psicologia si chiama “Teoria dell’attaccamento” e il suo fondatore è John Bowlby (1907-1990).  L’innovazione in epidemiologia si chiama “origine nello sviluppo della salute e della malattia, detta anche “programmazione fetale dello sviluppo” o “ipotesi di Barker” dal nome del suo ideatore David Barker (1938-2013).

BOWLBY E LA TEORIA DELL’ATTACCAMENTO

I punti fondamentali dell’innovazione di Bowlby: innanzitutto l’importanza delle primissime fasi della vita, non nel senso freudiano, che è centrato sulle pulsioni erotiche del bambino verso la madre e verso il padre e sui susseguenti conflitti e complessi e sugli stati sessuali infantili (orale, anale, fallica e genitale), bensì in una visione complessa e unitaria, che viene a Bowlby dalla visione interdisciplinare che mette in campo, gli studi di Lorenz sull’imprinting delle ochette, e quelli di Harlow sui macachi di poche settimane di vita che, nella gabbia della sperimentazione, cercano la finta madre di panno morbido invece di quella di metallo, che pur ha attaccato un biberon.  Ma anche le ricerche di Piaget sullo sviluppo mentale del bambino e, infine, quelle di Waddington sull’epigenetica.

Bowlby evidenzia che la relazione madre-bambino ha precisi fondamenti biologici: serve a proteggere e nutrire il cucciolo e, al tempo stesso, a consentirgli di conoscere la realtà circostante tramite l’apprendimento della regolazione delle emozioni.  Questo apprendimento avviene introiettando modelli di comportamento che B. chiama “Modelli operativi interni” che sono all’opera nella relazione fra bambino e figura genitoriale di riferimento, la quale ha un suo sistema di accudimento che può quindi indurre nel bambino un attaccamento sicuro o insicuro nelle diverse varianti.  Questo stile di attaccamento, che si forma a partire della seconda metà del primo anno di vita -che si basa su una estesa ricerca empirica-  può avere effetti a lungo termine sullo sviluppo della personalità, la quale tenderà a mettere in atto, anche nelle relazioni successive, i modelli operativi interni acquisiti nelle prime fasi della vita.

Questo imprinting cognitivo ed emozionale iniziale, che potrà essere confermato o riorganizzato più o meno ampiamente nel corso dello sviluppo individuale, fornisce la base per comprendere la personalità e i profili psicologici e patologici di una persona, ma anche la sua persistenza attraverso le generazioni (alcune meta-analisi hanno dimostrato che la trasmissione transgenerazionale degli stili di attaccamento riguarderebbe oltre l’80% degli adulti, che si comportano con i figli secondo modelli operativi interni appresi nella relazione con i genitori).

Quindi, riassumendo, da Bowlby vengono due idee scientifiche fondamentali: la centralità delle relazioni affettive (di attaccamento), costruite nelle prime fasi della vita, nel  condizionare lo sviluppo di una persona e quindi la sua salute e i suoi profili patologici; la loro tendenziale trasmissione intergenerazionale.

BARKER, LA PROGRAMMAZIONE FETALE DELLO SVILUPPO

Alla fine degli anni settanta, Barker e Osmond, utilizzando un dettagliato atlante della mortalità in Inghilterra e nel Galles nel decennio 1968-78, evidenziarono che le aree a più alta mortalità infantile nel 1910 avevano anche il più alto carico di mortalità cardiovascolare negli anni settanta.  Conclusero che un ambiente avverso in utero e durante l’infanzia era causalmente legato al rischio di malattie croniche nell’età adulta.   Un’altra ricerca epidemiologica fu fatta da alcuni epidemiologi di Amsterdam durante l’occupazione tedesca dei Paesi Bassi, su giovani donne gravide, tra il novembre 1944 e l’aprile del 1945 quando a causa dell’occupazione nazista l’alimentazione della popolazione si era ridotta a 400-800 calorie al giorno (sei volte meno della media normale). I figli nacquero con un peso minore del normale.  I ricercatori hanno documentato, in questo gruppo divenuto adulto, un aumento di incidenza di vari disturbi psichiatrici -tra cui: disturbi dell’umore (ansia e depressione), disturbi di personalità antisociale, schizofrenia e anche un accelerato declino delle funzioni cognitive all’età di 56-59 anni- nonché un aumento dei tipici disturbi legati al basso peso alla nascita, come diabete, obesità e i problemi cardiovascolari.

La teoria di Backer è in grado di spiegare i fenomeni osservati perché mette in luce che alterazioni nutrizionali in gravidanza, in eccesso o in difetto, programmano il metabolismo del feto all’ambiente che il nuovo nato troverà alla nascita: l’imprinting metabolico dei figli di donne che avevano patito la fame è programmato per la carenza di cibo, mentre i figli crescono in un ambiente con abbondante disponibilità questo li conduce al diabete e all’ obesità; ma lo stesso viene ottenuto da una gestante obesa o che soffre di diabete.  Ciò che conta è la disregolazione dei programmi metabolici nelle prime fasi della vita e il permanere del loro assetto squilibrato nel corso dell’età adulta.

  I meccanismi coinvolti, sono di natura epigenetica: è stato dimostrato che i figli della fame, 60 anni dopo, presentavano una minore metilazione del gene che comanda la sintesi di IGF-2, il fattore insulino simile di tipo 2 che regola la crescita del feto e che, se è scarsamente attivo, determina un basso peso alla nascita.

Le conseguenze dello stress in gravidanza

Negli anni novanta, alcuni studi, hanno documentato che lo stress materno, misurato all’inizio del terzo trimestre di gravidanza, incrementa il rischio di nascite prima del termine e di basso peso.  Le conseguenze di nascere prima del tempo, soprattutto se a causa di ciò si devono trascorrere le prime settimane di vita in incubatrice con nulli o scarsi contatti con la madre, sono importanti, poiché aumentano di molte volte l’attaccamento disorganizzato e quindi causano un danno strutturale al bambino. A 36 mesi, i bambini che avevano passato alcuni giorni separati dalla madre hanno sviluppato un attaccamento disorganizzato in percentuale sei volte superiore a quelli che non erano passati per incubatrice: una forma di attaccamento più gravida di conseguenze per la salute fisica e mentale del bambino e dell’adulto.  Questo studio mostra l’importanza del contatto fisico con i neonati, che occorre consentire ai genitori anche in un reparto protetto come l’unità di terapia intensiva.

La ricerca più impressionante è quella pubblicata su Lancet nel 2000, realizzata da neuropediatri danesi che hanno studiato oltre 3500 donne esposte, nel primo trimestre di gravidanza, a un grave evento che ha riguardato un congiunto, come la morte o il ricovero per cancro o infarto del marito o di un figlio.  Queste donne presentano un significativo tasso di nascite malformate, soprattutto a carico del c.d. tubo neurale (spina bifida; labiopalatoschisi).

Lo studio di un gruppo interuniversitario israeliano ha indagato donne gravide in diversi contesti: un contesto di guerra e di pericolo e uno di relativa protezione.  Il gruppo di donne sottoposte a stress ha manifestato tassi di abortività spontanea del 50% in più rispetto al gruppo protetto.

L’individuo è sempre il risultato dell’interazione dei geni con l’ambiente, non nel senso che ciascun fattore ha un peso di 50 e 50, ma nel senso che è l’ambiente ad agire su un determinato patrimonio genetico condizionandone l’espressione.  Nel caso dell’essere vivente in formazione, ì’ambiente è rappresentato dalla madre, la quale non solo passa il nutrimento che servirà all’embrione e al feto per realizzare il suo programma genetico di sviluppo ma ne programma anche la reattività di circuiti cerebrali fondamentali legati allo stress.

Per quanto riguarda l’incremento della abortività delle nascite pretermine e dell’infertilità, anche maschile, l’imputato è l’ormone ipotalamico CRH (Corticotropin Releasing Factor Hormone), che governa tutta la cascata di ormoni conseguente a un evento stressante (aumentoCRH→ aumento secrezione di cortisolo→ interferenza con la produzione di ormoni sessuali). Di fatto si traduce nell’alterazione dei meccanismi di impianto, stabilizzazione e crescita dell’uovo fecondato. Incrementa inoltre l’infiammazione a livello uterino aumentando il rischio di nascite premature.

Invece, per quanto riguarda la programmazione del cervello del bambino, la ricerca si concentra sui prodotti dell’asse dello stress materno: catecolamine (NorAdrenalina, drenalina, Dopamina) e glucocorticoidi (cortisolo e cortisone).  Le catecolamine, nel cervello fetale, hanno la capacità di alterare la produzione di serotonina, mentre i glucocorticoidi materni alterano i recettori fetali per i glucocorticoidi nell’ippocampo e dell’amigdala, strutture cerebrali di rilievo per la memoria e le emozioni, influenti sull’asse dello stress.  Il risultato è un “settaggio” iperattivo del sistema dello stress e, più in generale, della sensibilità emozionale.  Questo cervello tenderà a produrre normalmente quantità superiori di CRH che, sotto stress, diventeranno esagerate con sovrapproduzione di cortisolo, il quale a sua volta, tenderà a sregolare ulteriormente i recettori dell’ippocampo e dell’amigdala innescando un circolo vizioso.  Questa attività fisiologica sregolata lascerà segni, produrrà delle marcature epigenetiche in strutture chiave, come i recettori per i glucocorticoidi nell’ipotalamo.

Il fumo e la droga in gravidanza alterano il cervello del feto.

Una serie rilevante di studi dimostra che il fumo in gravidanza aumenta di più del doppio il rischio di disturbi da deficit di attenzione/iperattività nel bambino (ADHD) e nello stesso tempo crea problemi relazionali e psichiatrici a lungo termine.  Ma anche l’inquinamento ambientale (in particolare da piombo), incrementa nelle stesse proporzioni il rischio di questo disturbo psichiatrico.  I due inquinanti entrano in sinergia e il rischio si moltiplica varie volte.  Il fumo e l’inquinamento interessano soprattutto donne povere e con scarsa istruzione; persone che spesso vivono anche in aree più inquinate e in vecchi edifici con tubature fatiscenti che rilasciano piombo.

Ma cosa succede al cervello del feto esposto all’inquinamento, al fumo di sigaretta o alla cocaina, o a tutte queste sostanze insieme e quali sono i meccanismi che si alterano in modo permanente?  Con gli studi fatti con la RM su giovani di 13-15 anni che hanno subito un inquinamento da fumo e/o da cocaina nella loro fase prenatale, si è visto che hanno una riduzione della corteccia prefrontale dorso-laterale, della corteccia orbito-frontale e di alcune strutture dei gangli della base rispetto ai coetanei non esposti.  La corteccia pre-frontale dorso laterale svolge un ruolo centrale nell’elaborazione cognitiva, mentre quella orbito-frontale svolge un ruolo centrale nella regolazione delle emozioni controllando l’amigdala, un’area profonda del cervello sede delle emozioni fondamentali, e regolando il c.d. circuito del piacere, che nella dopamina ha il principale mediatore chimico.  La nicotina si lega a un importante recettore a cui si lega l’Acetilcolina, l’anomala e persistente stimolazione del recettore induce, con un meccanismo a rete, un incremento di dopamina che dà sensazioni di piacere.  Ovviamente questo meccanismo è esaltato dalla cocaina, che agisce proprio in questo circuito.

Il cervello del feto della mamma che fuma viene tarato da questo imprinting, che lo porterà da adolescente a ricercare quella sensazione di piacere e a fumare in modo pesante.  Sarà anche esposto alla dipendenza da droga e a disturbi della personalità caratterizzati da difficoltà di controllo dell’impulsività e dell’aggressività.

Roberto Biggio, Università di Cagliari (Centro di eccellenza per la neurobiologia delle dipendenze)

Psicoterapia, Farmacoterapia e Neuroscienze : quale integrazione?

 La corteccia prefrontale è l’ultima che si sviluppa e raggiunge lo spessore massimo fra i 16 e i 18 anni nella femmina e i 22-23 anni nel maschio.  Perturbare questo sviluppo va a sovvertire un equilibrio neuronale importante.  Il foglietto della corteccia prefrontale si assotiglia.  Lo sviluppo della densità sinaptica della corteccia è importante per lo sviluppo di funzioni importanti che essa svolge, in particolare la riflessione e la decisione.

Sono importanti, in questo discorso, quelle perturbazioni della vita intrauterina (patologie della madre), e le perturbazioni che avvengono nell’infanzia e nell’adolescenza che possono interferire in modo devastante sullo sviluppo della corteccia.  Fra queste l’uso di sostanze stupefacenti da parte della madre, infezioni e stress.  Poi c’è l’espressione genica: una madre attenta, che cura, può reprimere o modulare lo sviluppo genico, risultato che ci possiamo portare dietro tutta la vita, senza slatentizzarlo, mentre gli eventi avversi slatentizzano.  Due gemelli monocoriali, che hanno la stessa base genetica, possono avere destini diversi.  Questa differenza si rintraccia nella storia dei fattori che fanno evolvere diversamente e in cui, spesso, c’è l’uso di sostanze stupefacenti. 

Aspetti cognitivi, tono dell’umore e altri sintomi psichiatrici sono correlati a questo mancato sviluppo neuronale, come conseguenza di una alterata funzione glutaminergica.  Questo porta ad una diminuzione del numero di sinapsi.  Le spine dendritiche (che sono i luoghi di crescita dei dendriti dei neuroni che prendono contatto e creano connessioni con gli altri neuroni) si sviluppano con l’apprendimento: la motivazione e l’affettività sono stimoli importanti in questo sviluppo,  grazie a delle proteine trofiche (ne conosciamo attualmente solo qualcuna). Quando riparte il segnale sulla spina dendritica si assiste anche allo sviluppo morfologico della spina, si sviluppa l’antenna che inizia a muoversi per connettersi con altri neuroni.

BOWLBY EPIGENETICO: LO STILE DI ACCUDIMENTO NELLE PRIME FASI DELLA VITA CONFIGURA IL CERVELLO DELLA PROLE

La ricerca epidemiologica, da tempo, lega il sostegno familiare e la cura parentale alla salute del bambino e dell’adulto, segnalando che la qualità familiare è fortemente dipendente, anche se non esclusivamente, dalle condizioni socioeconomiche della famiglia.  L’insicurezza familiare rende più insicuro lo stile di attaccamento del bambino, costruendo una personalità insicura, epigeneticamente basata su un sistema dello stress fragile, che la espone a malattie di tipo psichiatrico.

Quindi una condizione di forte disagio familiare plasma epigeneticamente l’organismo che si sviluppa, in modo particolare il suo cervello.  Il massimo del disagio è certamente quello che registrano i bambini orfani o abbandonati in istituto.

Uno studio, iniziato nel 2001, da un gruppo di ricercatori del Boston Children Hospital della Harvard Medical School, denominato Bucharest Early intervention Project, ha coinvolto sei orfanotrofi della capitale romena, il cui obiettivo è esaminare gli effetti dell’istituzionalizzazione infantile sullo sviluppo del cervello e del comportamento e verificare se l’affido familiare abbia la capacità di recuperare i danni cerebrali.

136 bambini attorno ai 2 anni di età, che stavano in orfanotrofio dalla nascita sono stati divisi, in modo casuale, in due gruppi, uno inviato in affidamento e l’altro rimasto in orfanotrofio (prima di questo progetto, finanziato dal gruppo statunitense, non c’erano a Bucarest un programma di adozioni).  Lo studio ha previsto un gruppo di controllo formato da bambini di Bucarest della stessa età che vivevano in famiglia.  Tutti i bambini sono stati osservati per circa 8 anni a intervalli regolari, monitorandone lo sviluppo intellettivo e comportamentale, fino ad una età compresa tra i 9 e 11 anni.

I bambini in orfanotrofio hanno mostrato alterazioni della microstruttura della materia bianca in una serie di circuiti, nella parte centrale del corpo calloso, nel cingolo, nella corona radiata, nel fornice, nella capsula esterna, nell’area retrolenticolare della capsula interna e del lemnisco mediale.  Le immagini cerebrali con la tecnica del DTI (Diffusion Tensor Imaging) di questi circuiti cerebrali mostrano un deficit di collegamento che spiegano anche i disturbi comportamentali, cognitivi e nella gestione delle emozioni che, con maggiore frequenza, sono presenti in questi bambini abbandonati. Fa eccezione l’area retrolenticolare della capsula interna che, invece di indebolirsi, si mostra ispessita e quindi più funzionale.  Quest’area fa parte del sistema visivo, verrebbe da pensare che negli orfani istituzionalizzati ci sia maggiore acutezza visiva, per la necessità di stare sempre in allerta.

I bambini in affidamento, invece, mostrano immagini cerebrali del tutto simili ai bambini che vivono in famiglia, anche se alcune alterazioni della materia bianca sono ancora visibili nel corpo calloso e nella corona radiata.

L’importanza dello studio di Harvard sta nella dimostrazione che l’affidamento familiare non è solo un obbligo etico, ma è anche un intervento sanitario efficace.

La relazione stretta che c’è tra le prime fasi della vita e le caratteristiche e la salute dell’adulto impone di vedere sotto un’altra luce le politiche di sostegno sociale alle famiglie.  Sia in termini economici sia in termini scientifici e culturali (investimenti economici sulla famiglia permetterebbero di risparmiare ben di più sulle spese sanitarie future). 

IL PARADIGMA DELL’ATTACCAMENTO

Attaccamento e pericolo

Le esperienze potenzialmente traumatiche sul piano biologico e psicologico, quali le malattie, la perdita di un bene prezioso o di una persona cara, gli incidenti, le separazioni familiari, il maltrattamento e l’abuso fisico o sessuale, sono molto comuni, anche durante l’infanzia.  Per proteggersi al meglio da questi eventi pericolosi la nostra specie, nel corso dell’evoluzione, ha elaborato strategie difensive molto sofisticate.

Secondo la teoria dell’attaccamento, proposta dopo la metà del secolo scorso dallo psicoanalista inglese John Bowlby, l’essere umano manifesta fin dalla nascita una predisposizione innata a sviluppare relazioni privilegiate con adulti che svolgono funzioni genitoriali primarie (particolarmente la madre, ma anche il padre e altri familiari o membri del gruppo sociale).  Lo scopo fondamentale di queste relazioni è, appunto, la protezione dal pericolo.  Non tutti i legami umani, anche se significativi, assumono questo significato.  Per parlare di attaccamento devono essere considerate almeno queste tre caratteristiche:

  1.  La ricerca di vicinanza (proximity seeking) tra la persona attaccata e la persona che offre attaccamento; questa ricerca è molto evidente nel bambino piccolo in relazione alla madre: per sentirsi tranquillo deve essere sicuro della sua presenza, la tiene per mano, la abbraccia oppure la vuole a portata di sguardo.  Nell’attaccamento fra adulti questa vicinanza è soprattutto psicologica: basta potere contare sul fatto che l’altra persona “ci abbia in mente” e si preoccupi per noi rendendosi disponibile a confortarci e proteggerci in caso di necessità.
  2. La reazione di protesta per la separazione (separation protest), cioè quell’insieme di “comportamenti di attaccamento” che si manifestano nel momento in cui la vicinanza protettiva della figura di attaccamento non è più garantita.  Ancora una volta questo aspetto è più evidente nel bambino piccolo quando è allontanato dalla madre in un ambiente poco familiare (per esempio l’asilo),  In modo simile anche gli adulti manifestano la loro contrarietà alla separazione dalle loro figure di attaccamento (litigando, piangendo, preoccupando, accusando, ricattando o colpevolizzando).  In alcuni casi questi comportamenti, frequentemente aggressivi, sono così problematici da presentarsi come veri e propri sintomi.
  3. L’effetto di base sicura (secure base) , cioè la particolare atmosfera di sicurezza e di fiducia che si è instaurata nella relazione con la figura di attaccamento.  Questo concetto è stato particolarmente valorizzato da Bowlby, che ha evidenziato come aspetto fondamentale della figura genitoriale, sia materna sia paterna, consista nel favorire questo clima fiducioso di sostegno: essere disponibili quando richiesto a confortare, dare assistenza e incoraggiare i propri figli, ma anche sapersi ritirare sullo sfondo quando il proprio intervento attivo non è necessario.  Nella vita adulta, la condizione di base sicura si evidenzia particolarmente all’interno della relazione di coppia.

Nella prospettiva dell’attaccamento, che integra le teorie psicoanalitiche, etologiche, evoluzionistiche, cognitiviste e sistemiche con gli studi delle neuroscienze e dell’infante research, si indicano con il nome “modelli operativi interni” le rappresentazioni interne di sé stessi, delle proprie figure di attaccamento e del mondo, nonché delle relazioni che li legano.  Questi modelli di relazione rappresentati internamente sono relativamente stabili nel tempo e vengono utilizzati per predire il mondo e per rapportarsi con esso.  Le esperienze passate possono in questo modo essere conservate e utilizzate per guidare le aspettative e i comportamenti futuri, particolarmente nelle situazioni di minaccia e di pericolo.

Molti dati di ricerca sono stati ottenuti tramite la somministrazione di questionari self-report, ma anche attraverso interviste semistrutturate come l’Adult Attachment Interview (AAI), che viene considerata come il punto di riferimento dei modelli di valutazione dell’attaccamento adulto.  L’attaccamento adulto può essere suddiviso in tre grandi categorie che sono l’espressione di specifici modelli operativi interni:

  1. Attaccamento Sicuro o Equilibrato (tipo B o Free, F).  Queste persone hanno sperimentato durante l’infanzia una condizione di protezione e di conforto che ha permesso lo sviluppo di una base sicura, cioè di una sensazione interiorizzata di sicurezza che ha favorito le esperienze di autonomia, l’esplorazione dell’ambiente e le relazioni con gli altri.  Le loro AAI si caratterizzano per un facile accesso ai ricordi e per il racconto coerente ed equilibrato della propria infanzia.  Se vi sono state esperienze negative, dall’intervista traspare un senso di dolore autentico e superato.  Lo sviluppo adeguato di una capacità di mentalizzazione permette di interpretare il proprio comportamento e quello altrui in termini di stati mentali, cioè in relazione a pensieri, affetti, desideri, bisogni e intenzioni.  Manifestano quindi buone capacità riflessive ed empatiche e sono in grado di esprimere in modo adeguato le emozioni integrando l’affettività con le proprie capacità cognitive e razionali.  Le capacità riflessive favoriscono la rappresentazione psicologica e la simbolizzazione del proprio stato interiore e sono quindi determinanti per una regolazione emotiva efficace, il controllo degli impulsi, la gestione dello stress, l’automonitoraggio (il riflettere sul proprio comportamento) e il riconoscersi come protagonisti delle proprie azioni.  Questo protegge dalla sofferenza mentale e fisica, agendo da fattore protettivo nei confronti delle malattie.
  2. Attaccamento insicuro Distanziante/Evitante (Tipo A o Dismissing, Ds).  Questo pattern corrisponde a una reazione difensiva di tipo ipoattivante in cui le difficoltà sono minimizzate allontanando i ricordi negativi ed evitando i conflitti.  Queste persone nelle AAI forniscono resoconti brevi e incompleti della propria infanzia e delle relazioni familiari e tendono ad idealizzare i genitori (a volte esonerandoli dalle loro responsabilità) e a presentare in modo positivo le esperienze passate (anche se in contraddizione con i ricordi autobiografici).  Gli affetti disturbanti come la rabbia, la paura, il desiderio di conforto oppure l’eccitazione sessuale vengono distanziati perché vissuti come negativi e troppo pericolosi, e si manifesta la tendenza ad adeguarsi in modo eccessivamente compiacente al punto di vista e alle richieste degli altri senza far emergere i propri bisogni.  A volte gli stati affettivi sono manifestati, ma in modo distorto o falsificato (per es. sorridono se si sentono a disagio oppure se parlano di argomenti tristi o situazioni dolorose).  Nel proprio pensiero le persone distanzianti privilegiano le informazioni di natura cognitiva e logica piuttosto che le emozioni, di conseguenza tendono ad esprimersi in modo razionale, ma poco comunicativo, e di parlare di sé riferendosi ad esperienze concrete e ad aspetti fisici, piuttosto che psicologici.
  3. Attaccamento insicuro Preoccupato/Ambivalente (Tipo C o Entangled, E).  Si tratta di una configurazione difensiva iperattivante caratteristica di personalità eccessivamente coinvolte in conflitti e difficoltà legati al passato e alle relazioni con le proprie figure di attaccamento (che sono state incostanti e imprevedibili nel garantire le condizioni di sicurezza).  Per questo si lamentano dei propri problemi enfatizzando le esperienze negative e biasimando le persone dalle quali ritengono di aver ricevuto dei torti (particolarmente i propri genitori) nel tentativo di stimolare in modo coercitivo l’attenzione degli altri e ricevere maggiore comprensione e protezione.  Alle AAI manifestano una scarsa capacità di sintesi e si perdono in narrazioni caotiche e contradittorie.  Nelle loro raccomandazioni sono centrati in modo ossessivo sul proprio punto di vista (nel tentativo di convincere l’interlocutore).  Le persone preoccupate possono nascondere informazioni, manipolare o mentire manifestando limitate capacità riflessive e scarsa considerazione per i problemi altrui.  Nella loro attività di pensiero si fanno guidare dalle emozioni privilegiando l’affettività rispetto alla logica e tendendo ad enfatizzare gli affetti (compresi quelli negativi) in modo confuso e ambivalente.
  4. Attaccamento Irrisolto Disorientato/Disorganizzato (Tipo D o Unresolved, U) caratteristico di persone che durante l’infanzia o in età adulta sono state esposte a esperienze di perdita o eventi traumatici non ancora elaborati (trascuratezza, maltrattamenti, abusi, abbandoni) che sembrano disorganizzare il sistema di attaccamento, per cui i resoconti del proprio passato risultano, nei punti legati a tali vicende, gravemente confusi o contradittori.  Questo pattern è frequentemente associato a psicopatologia.

Attaccamento e comportamento di malattia

Il termine “comportamento di malattia” indica il modo in cui gli individui valutano se stessi in termini di salute e malattia.  La maggior parte delle persone percepisce il proprio funzionamento corporeo in modo relativamente equilibrato e si vive raramente come malata, per cui si rivolge al medico solo quando è necessario. A volte, però, il comportamento di malattia si presenta notevolmente alterato.  Alcune persone, ad esempio, prestano una eccessiva attenzione alle proprie attività fisiologiche e sono continuamente preoccupate di essere ammalate (è il caso dei pazienti ipocondriaci).

Altre manifestano sintomi somatici (dolori, tensioni, palpitazioni, difficoltà respiratorie, digestive o urinarie) per i quali non è possibile evidenziare un’alterazione biologica significativa (queste condizioni sono solitamente indicate con il nome “disturbi di somatizzazione” o “disturbi funzionali” e suddivisi in sindromi differenti sulla base della loro sintomatologia)

Gli studi svolti negli ultimi anni hanno dimostrato che il comportamento di malattia e la tendenza alla somatizzazione e all’ipocondria sono legati alle esperienze di attaccamento e all’espressione dei modelli operativi interni.

Ricerche condotte su vaste popolazioni di pazienti hanno rivelato, per esempio, che i soggetti con stile di attaccamento insicuro, particolarmente di tipo distanziante (tipo A o Ds), presentano più frequentemente la tendenza a manifestare preoccupazioni ipocondriache e a lamentare sintomi somatici senza spiegazione medica.  Una caratteristica delle configurazioni di attaccamento distanziante, specialmente delle configurazioni a indice elevato (A+), che tendono a manifestarsi nelle persone che sono cresciute in condizioni ambientali di pericolo (fisico o psicologico) costante e prevedibile, è la tendenza a distanziare o a falsificare gli affetti negativi proibiti (rabbia, paura, vulnerabilità, eccitazione sessuale).  Negli stessi individui si manifestano frequentemente alterazioni del comportamento di malattia caratterizzate da sintomi da somatizzazione, sindromi funzionali e preoccupazioni ipocondriache.  In alcune di queste situazioni l’aumento dell’attività emozionale (arousal) e le condizioni di malessere sono percepiti soggettivamente solo per gli aspetti somatici, gli unici che possono essere riconosciuti e comunicati.   In questo modo il soggetto ricerca aiuto (dalla figura di attaccamento o dal medico) per i propri problemi corporei e non per quelli psicologici.  In altri casi, gli stessi segnali somatici di pericolo (dolore, alterazioni delle percezioni o delle funzioni corporee) sono ignorati al punto da non consentire una ricerca adeguata di aiuto medico, con il possibile sviluppo di gravi danni biologici e di malattie.

Nel sesso femminile l’attaccamento insicuro sembra poter spiegare il legame, evidenziato da molte ricerche, tra le esperienze infantili di abuso sessuale o fisico e i disturbi da somatizzazione.  L’esperienza traumatica può indurre lo sviluppo di un pattern di attaccamento insicuro distanziante (che comporta l’aspettativa di non poter ricevere aiuto per i propri bisogni psicologici) favorendo l’intensificazione di disturbi somatici al fine di ricercare aiuto e protezione da parte della figura di attaccamento.

Negli uomini tale aspetto è meno evidente, in quanto l’attaccamento insicuro e i traumi infantili sembrano favorire i disturbi di somatizzazione come fattori indipendenti.

Anche le persone con configurazioni di attaccamento preoccupato (tipo C o E), particolarmente quelle a indice elevato (C+), possono utilizzare la sofferenza somatica e le lamentele ipocondriache in modo strategico.  La differenza sta nella diversa funzione svolta dal comportamento di malattia.  I soggetti preoccupati amplificano il proprio malessere e opprimono i familiari per imporsi alla loro attenzione senza essere mai soddisfatti dell’aiuto che ricevono.  In questo modo perseguono i propri scopi rivendicativi in una lotta eterna nei confronti delle proprie figure di attaccamento.  Le persone distanzianti, che possono manifestare disturbi somatici come conseguenza di scarsa regolazione emozionale, ricercano aiuto attraverso i loro disturbi fisici in quanto l’espressione degli affetti e dei bisogni psicologici è inibita.

Influenza dell’attaccamento sulle malattie

La ricerca evidence based ha raccolto i seguenti dati sulla relazione fra attaccamento e malattia:

  1. Associazione fra attaccamento insicuro e malattia durante l’infanzia. Questo legame è stato confermato da studi controllati su bambini affetti da una serie di malattie croniche, quali l’otite media ricorrente, l’epilessia, l’asma, i difetti cardiaci di origine genetica, le difficoltà di crescita, i disturbi di conversione e quelli senza spiegazione medica.  In tali situazioni il legame con i genitori sembra influenzare l’espressione e il decorso della malattia.  E’ possibile che l’influenza dell’attaccamento si manifesti maggiormente in quelle situazioni in cui una patologia cronica infantile genera nei genitori ansie e preoccupazioni che interferiscono significativamente nella relazione con il bambino, favorendo lo sviluppo di un attaccamento insicuro e influenzando negativamente l’espressione e la gestione della malattia.
  2. Associazione fra attaccamento insicuro e malattia dell’adulto. Gli studi hanno esplorato principalmente il legame con le malattie psichiatriche, piuttosto che quelle somatiche.  Le poche ricerche controllate in ambito medico hanno messo in evidenza il ruolo svolto dall’attaccamento distanziante, particolarmente evidente in patologie quali il torcicollo spastico idiopatico, la psoriasi diffusa a placche e le malattie infiammatorie croniche intestinali, come la rettocolite ulcerosa e il morbo di Crohn.
  3. Associazione tra fattori di rischio infantile per l’attaccamento insicuro e malattia dell’adulto. Studi sperimentali svolti sugli animali e sugli esseri umani hanno evidenziato che le continue sollecitazioni corporee e gli stimoli offerti dalla madre regolano le funzioni corporee del neonato e agiscono come un “regolatore biologico e comportamentale” che permette l’acquisizione graduale di una capacità di regolazione psicosomatica autonoma.  Ciò influenza le funzioni fisiologiche, la regolazione delle emozioni e la risposta allo stress, costituendo la base del futuro legame di attaccamento.  La perdita precoce della madre, o la sua difficoltà a svolgere una funzione genitoriale adeguata, e in generale tutti gli eventi che nei primi anni di vita minacciano la relazione di attaccamento, oltre a risultare stressanti sul piano dello sviluppo psicologico, possono quindi comportare in modo diretto una carenza di controllo delle funzioni fisiologiche di base.  Il risultato dipende anche dalle caratteristiche  genetiche del bambino.  Nell’attaccamento distanziante in cui spesso la persona è cresciuta in condizioni costanti di trascuratezza o pericolo anche gravi, l’influenza dell’ambiente relazionale infantile sembra maggiore.

Il modello di Maunder e Hunter

Basandosi sui dati emersi dalle ricerche, Maunder e Hunter hanno predisposto un modello secondo il quale l’attaccamento insicuro può favorire uno stato di malattia in tre modi:

  1. Influenzando la regolazione dello stress.
  2. Aumentando l’intensità dello stress percepito.  I soggetti preoccupati sono caratterizzati da una sensazione di vulnerabilità personale e di allarme così intensi che ogni sensazione enterocettiva può essere vissuta come una potenziale minaccia, portandoli a lamentarsi continuamente dei loro disturbi.  Al contrario, nell’attaccamento distanziante la sfiducia nei confronti degli altri può portare a inibire l’espressione dei propri bisogni e sottovalutare i segnali corporei di pericolo.
  3. Influenzando l’intensità o la durata della risposta fisiologica allo stress.  L’attaccamento insicuro di tipo sia preoccupato sia distanziante, è caratterizzato da una risposta allo stress maggiore e prolungata (aumento della frequenza cardiaca e dei livelli di ACTH e cortisolo)
  4. Compromettendo il ruolo protettivo del supporto sociale., elemento determinante nell’espressione e nel mantenimento delle condizioni di salute e malattia.  Lo stile di attaccamento influenza significativamente la relazione con le altre persone e, in particolare determina le modalità con cui si richiede o si accetta un aiuto quando si è in pericolo o ammalati.
  5. Alterando l’utilizzo dei regolatori esterni. Un deficit nella regolazione degli stati affettivi e dei loro correlati fisiologici porta più frequentemente ad utilizzare strategie comportamentali nel tentativo di controllare le emozioni che non possono essere sufficientemente mentalizzate: fumare, bere alcolici, assumere farmaci o droghe, mangiare eccessivamente o troppo poco, dedicarsi ad attività sessuali compulsive o pericolose, a esercizi fisici o sport estremi, al gioco d’azzardo, allo shopping compulsivo, all’utilizzo eccessivo di internet oppure procurarsi sensazioni dolorose o lesioni corporee.  Questi stessi comportamenti costituiscono importanti fattori di rischio nei confronti delle malattie, oltre ad essere caratteristici dei disturbi da dipendenza e di quelli del comportamento alimentare.
  6. Alterando l’utilizzo di fattori protettivi. Lo stile di attaccamento può influenzare aspetti del comportamento di malattia come le modalità con cui si cerca aiuto medico, si riferiscono i sintomi e l’aderenza ai trattamenti.

Bisogna infine considerare la possibilità che lo stile di attaccamento possa interagire con la malattia favorendo la manifestazione di alterazioni psicopatologiche, come uno stato depressivo o di intensa ansia, che pregiudicano a loro volta la condizione clinica.

Stress e malattie autoimmuni.  Un primo grande studio epidemiologico conferma il legame.

A colloquio con le due autrici della ricerca Huan Song e Ummur Anna Valdimarsdottir

Stress e malattie autoimmuni. Un primo grande studio epidemiologico conferma il legame. A colloquio con le due autrici della ricerca Paola Emilia Cicerone – giornalista scientifica Lo studio prende in esame la relazione tra 41 patologie autoimmuni e i disturbi causati da stress severo, su un campione maschile e femminile, confrontato con i fratelli e con la popolazione in generale. Conclusione: gli individui che hanno sviluppato patologie stress correlate corrono un maggior rischio di sviluppare patologie autoimmuni.

È una ricerca importante, quella realizzata in Scandinavia da un gruppo di ricercatrici e ricercatori che hanno sfruttato i database del sistema sanitario svedese per individuare una correlazione tra stress e malattie autoimmuni. Raccogliendo attraverso il sistema nazionale di censimento e i servizi sanitari i dati relativi a tutti i cittadini svedesi, oltre sette milioni di individui, e seguendoli tra il gennaio 1981 e il dicembre 2013 per individuare i soggetti cui era stato diagnosticato un disturbo stress correlato. In questo modo sono stati raccolti dati su oltre centomila soggetti, e settantottomila fratelli, da mettere a confronto con gruppi campione per seguirne la storia clinica e dare solidità a quella che finora era solo un’ipotesi suffragata da pochi studi. Lo studio (1), pubblicato su JAMA mostra che i soggetti che hanno sofferto di PTSD e altre patologie stress correlate hanno una possibilità del 30/40% superiore rispetto alla media della popolazione – percentuale che aumenta se l’esperienza traumatica è vissuta in giovane età – di ammalarsi di una delle quarantuno patologie autoimmuni prese in esame dallo studio, come diabete di tipo1, Lupus eritematoso sistemico, morbo di Addison e morbo di Crohn. Una ricerca che apre prospettive importanti, anche grazie a un approfondimento che evidenzia gli effetti su questi pazienti dei farmaci SSRI (Inibitori della ricaptazione della serotonina) ipotizzando un loro possibile utilizzo a scopo preventivo.

 Abbiamo chiesto alla prima firmataria dello studio Huan Song una giovane ricercatrice di origine cinese e alla sua docente, l’epidemiologa Unnur Valdimarsdottir di raccontarci come è nato questo studio e quali sono le prospettive che apre.

 “Per quanto ne sappiamo – spiegano le ricercatrici – questo è il primo studio a prendere in esame la relazione tra quarantun diverse patologie autoimmuni e le patologie causate da stress severo – sindrome da stress post traumatico clinicamente confermata, disturbo da stress acuto, disturbo di adattamento e altre reazioni da stress – su un campione maschile e femminile, in un confronto tra fratelli e con la popolazione in generale. Fino ad oggi l’ipotesi di un collegamento tra stress e squilibri del sistema immunitario era basta su solidi studi su modelli animali, e su dati clinici che però consistono in pochi studi osservazionali su veterani americani, in maggioranza maschi. Senza contare che in qualche caso questi studi presentano carenze metodologiche tali da rendere difficile trarne conclusioni solide”.

 Alle quali invece voi ritenete di essere arrivate.

“ Dopo aver escluso fattori confondenti, comorbilità e possibili bias legati allo studio stesso, i nostri dati hanno dimostrato che gli individui che hanno sviluppato patologie stress correlate corrono un maggior rischio di sviluppare patologie autoimmuni. In aggiunta emerge una novità interessante, e cioè il fatto che questo rischio può essere ridotto se dopo la diagnosi di PTSD è adottata una terapia prolungata a base di SSRI. Sappiamo però che la correlazione tra stress e malattie autoimmuni varia molto tra le diverse patologie, ad esempio è elevata per quanto riguarda la malattia di Addison e piuttosto debole nell’artrite reumatoide.”

 Quale criterio è stato adottato in questo caso?

“In effetti, i nostri dati mostrano un’associazione statisticamente significativa tra disturbi correlati allo stress e diciotto patologie autoimmuni, con diversi ordini di grandezza per le varie malattie (ad esempio è più elevata per il morbo di Addison, la sindrome di Guillain – Barrè e il morbo di Crohn, ndr). Pensiamo che queste differenze possano essere dovute al diverso ruolo che il sistema immunitario gioca nelle varie patologie.”

 L’inclusione di gruppi di fratelli ha permesso di escludere fattori genetici o comunque legati alla familiarità, che hanno un peso importante quando si parla di patologie autoimmuni?

“ Sì, questo genere di comparazione permette di tenere conto sia della genetica sia di possibili esposizioni ambientali durante il promo anno di vita, tutti dati che non erano presenti nei [1 Huan Song et al (2018) Association of Stress-Related Disorders With Subsequent Autoimmune Disease. JAMA 319(23):2388-2400. doi:10.1001/jama.2018.7028] registri utilizzati per la ricerca. E quindi sono un’utile integrazione allo studio sulla popolazione.”

 E per quanto riguarda i disturbi da stress, quali sono stati i criteri di inclusione?

“ Al centro del nostro studio ci sono soggetti che hanno ricevuto una diagnosi di PTSD o altri disturbi legati allo stress, dopo l’esposizione a un evento avverso: si tratta di un gruppo di disturbi scatenati da eventi traumatici con rischio di vita, mentre altri disturbi, come il disturbo da adattamento, più comuni e meno gravi, sono legati a eventi come un lutto, una diagnosi di malattia cronica in famiglia, l’esposizione a violenza o discriminazione, o per i bambini il neglect, una forma di maltrattamento basata sulla trascuratezza dei caregiver. A questo proposito, i traumi in età infantile sembrano rappresentare un rischio più elevato.”

 Esistono pazienti più vulnerabili di altri?

“ Sì, i nostri dati mostrano che l’esposizione allo stress in giovane età aumenta il rischio relativo di sviluppare patologie autoimmuni. Un dato in linea con altri studi, che mostrano come l’esposizione precoce a un trauma possa avere effetti a lungo termine su una serie di processi biologici, forse attraverso un’interazione geni-ambiente che conferisce una maggior vulnerabilità nei confronti di alcune patologie, incluse quelle autoimmuni. Una vulnerabilità che secondo il vostro studio può essere ridimensionata da un trattamento a base di SSRI della durata di circa un anno: cosa ci dice questo dello stress, e dei suoi effetti sulla nostra salute? Ci sono già stati studi che confermavano l’efficacia di questi farmaci nel ridurre i principali sintomi del PTSD, ma anche le sue conseguenze dal punto di vista fisiologico. I nostri risultati mostrano che gli SSRI potrebbero spezzare il circolo vizioso stress/malattia autoimmune. Il che fa supporre che un intervento tempestivo ed efficace potrebbe aiutare i pazienti che manifestano gravi disturbi da stress a prevenire queste patologie. Senza dimenticare che, più in generale, un dato di questo tipo evidenzia come trattare i disturbi causati dall’esposizione allo stress ne ridimensioni gli effetti sull’organismo, confermando la relazione causale tra stress e patologie autoimmuni.”

 E per quanto riguarda le psicoterapie?“ Ci sono informazioni sui loro effetti o sono previsti studi di questo tipo?

“ Purtroppo i dati a nostra disposizione non contenevano questo tipo di informazioni, anche se uno studio sull’efficacia della psicoterapia nella prevenzione delle malattie autoimmuni tra i pazienti vittime di PTSD potrebbe essere molto utile. Ma bisognerebbe avere a disposizione un database con queste informazioni, altrimenti una ricerca del genere richiederebbe molti anni di lavoro.”

 Fin qui abbiamo parlato di malattie autoimmuni. È possibile ipotizzare una relazione tra stress ed altre patologie, come ad esempio i tumori?

“ In base ai dati di cui disponiamo, possiamo solo confermare la relazione tra stress e malattie autoimmuni: la nostra ipotesi è che la reazione al trauma o ad altri eventi stressanti possa alterare il funzionamento del sistema immunitario aumentando la vulnerabilità dell’organismo a queste malattie. Tuttavia il nostro è uno studio epidemiologico, e anche se abbiamo individuato una solida associazione tra lo stress e queste malattie la nostra capacità di esplorare i meccanismi biologici che potrebbero stare alla base di questa associazione è limitata, e saranno sicuramente necessari nuovi studi. Lo stesso vale per la possibile relazione tra stress e altre patologie, come il cancro. Qualcosa però sappiamo, per esempio a proposito dell’infiammazione che sempre di più emerge come fattore di rischio per varie patologie… È stato ipotizzato che il processo infiammatorio sia sovrastimolato dallo stress cronico, un meccanismo indotto dalla resistenza ai recettori dei glucocorticoidi e di conseguenza da una sovrapproduzione di citochine infiammatorie. E abbiamo anche crescenti conferme del fatto che i fenomeni infiammatori potrebbero giocare un ruolo importante nella patofisiologia di varie malattie stress correlate, anche se non conosciamo ancora bene le basi di questo meccanismo. Sembra però che da questo studio emerga sempre più chiaramente l’importanza dello stress come fattore di rischio. Possiamo dire che una severa reazione da stress può avere diversi effetti sull’organismo e tra questi, oltre alla possibilità della cronicizzazione di disturbi mentali, è necessario segnalare per la sua importanza anche uno squilibrio del sistema immunitario.”

 Come prosegue la ricerca? Voi stesse avete segnalato nell’articolo apparso su JAMA i limiti del vostro studio, a che cosa state lavorando adesso?

“ Come prima cosa abbiamo bisogno di nuovi studi per individuare i meccanismi alla base di questi fenomeni, per esempio esplorando il ruolo potenziale di fattori genetici e ambientali, ma anche l’effetto di modifiche nello stile di vita. E intendiamo anche approfondire le nostre scoperte riguardanti l’effetto preventivo del trattamento prolungato con SSRI, con studi osservazionali e randomizzati

Lettura suggerita:

“Le esperienze sfavorevoli infantili come fattore di rischio per le malattie psichiatriche e le malattie fisiche – lo studio ACE- (Adverse Childhood Experiences)” di Feritti

“Gli eventi traumatici nei primi anni di infanzia non vengono persi, ma piuttosto conservati per tutta la vita, come le impronte di un bambino nel cemento fresco.  Il tempo non cura le ferite che avvengono in quei primi anni: le nasconde solamente.  Le ferite non vengono perse, diventano parte del corpo”

Lanius, Vermetten, Pain.