Intersoggettività e relazione terapeutica

​In psicoanalisi, ed in generale all’interno del dibattito sulle psicoterapie, si è assistito ad un progressivo spostamento dall’intrapsichico, ovvero dal mito della mente isolata, all’intersoggettività, ovvero all’idea che i fenomeni psichici siano irriducibilmente formati dall’incontro di soggettività in interazione. Tutti i fenomeni vengono quindi letti all’interno della complessa interazione tra le componenti cognitive, affettive e relazionali e le dimensioni biologica, storica, culturale, tecnologica, all’interno del contesto nel quale la mente funziona. La concezione della mente viene quindi riformulata in termini di processo e non più come costituita da varie componenti disgiunte: una mente calata in una dimensione intersoggettiva di cui è parte. Il contesto non  più meramente ciò che ci circonda il soggetto, ma è parte integrante del processo di co-costruzione della realtà. Questo cambiamento concettuale ha portato con sé importanti mutamenti anche nella pratica clinica psicoterapica: assistiamo al passaggio da una cura basata principalmente sulla parola e su processi simbolici, ad un attenzione ormai imprescindibile al processo terapeutico e ai fenomeni impliciti. Anche all’interno degli studi neuroscientifici sui processi cognitivi che caratterizzano l’interazione sociale si assiste ad un passaggio da una visione metarappresentazionale e proposizionale dell’intersoggettività ad una visione non più legata al linguaggio.

E come in psicoterapia si è passati da un approccio in terza persona, neutrale e distante, ad una concezione del processo terapeutico come campo intersoggettivo che valorizza la mutua influenza fra le parti, anche le neuroscienze cognitive parlano attualmente di un approccio in seconda persona in cui l’altro non è percepito e pensato solo in una maniera metarapppresentazionale (in terza persona) ovvero mettendosi scientemente nei panni degli altri: l’altro è prima, e forse alle volte anche solo, sentito in maniera a pre-rappresentazionale e immediata. Il meccanismo specchio, che permette la simulazione incarnata, non prevede alcuna inferenza o introspezione: semplicemente è una riproduzione automatica, non consapevole e pre-riflessiva, degli stati del corpo associati alle azioni, alle emozioni e alle sensazioni dell’altro.

Ammanniti e Gallese (2014) sostengono quindi che vi siano rappresentazioni in formato corporeo: gli stati o i processi mentali vengono incarnati primariamente in virtù del loro formato corporeo e motorio. Questo assunto sembra correlato alla differenziazione tra codice verbale e codice non verbale operata da Wilma Bucci nella sua teoria del codice multiplo. L’elaborazione subsimbolica riguarda tutti quegli stimoli, come i sentimenti o le informazioni motorie e sensoriali, stimoli non- verbali, che vengono processati “in parallelo” senza l’intervento della processazione simbolica. Questo tipo di elaborazione è continua, intuitiva e non proposizionale: “Tali computazioni servono anche per differenziare i leggeri cambiamenti dell’espressione facciale, identificare cambiamenti nei movimenti corporei o nelle qualità vocali e riconoscere modificazioni del proprio stato viscerale, riconoscere le emozioni nell’espressione facciale altrui […] o, per restare su un terreno più professionale, intuire il timing dell’interpretazione al paziente” (Bucci 1997). Noi sappiamo che nell’arco del primo anno di vita le esperienze interattive vengono immagazzinate e organizzate in una forma pre-verbale e non simbolica all’interno di una conoscenza implicita (Stern 2004); per Bucci il risultato di questa conoscenza è la formazione di “schemi emotivi”: essi sono formati da attese e aspettative sulle altre persone e comprendono le rappresentazioni degli oggetti, delle parti degli oggetti e delle relazioni fra di essi in tutte le modalità sensoriali, oltre che dai pattern di attivazione associati alle azioni motorie ed agli stati viscerali e somatici. Questo modo di concepire la formazione degli schemi emotivi corrisponde all’idea di Beebe e Lachmann (2003) dell’organizzazione del “mondo rappresentazionale” dell’infante nei primi mesi di vita, prima dello sviluppo della capacità simbolica, che porta allo sviluppo di immagini prototipiche generalizzate le quali diventano poi la base per le forme simboliche delle rappresentazioni del sé e dell’oggetto. In situazioni di trauma cumulativo, ovvero quando il bambino vive una situazione traumatica di carenza o mancata sintonizzazione di risposte emotive da parte dei genitori, il bambino non può sviluppare quelle rappresentazioni che sono fondamentali per la costituzione del suo senso di realtà; ed ancora, per dirla con Bucci, il bambino forma rappresentazioni corporee subsimboliche che restano dissociate dal codice verbale all’interno degli schemi emotivi.

Come possono esserci utili queste nuove concettulizzazioni sull’intersoggettività nella pratica clinica? Per Kohut (1984) l’empatia oltre ad essere lo strumento attraverso cui raccogliamo dati fondamentali sul mondo interno dei pazienti, è anche un importante strumento terapeutico: l’esposizione ripetuta ad esperienze di comprensione empatica da parte dell’analista serve a riparare i difetti del Sè del paziente. Secondo la Psicologia del Sè, quindi, il meccanismo di comprensione psicoanalitica, che è necessariamente legato ai processi di percezione empatica, è ciòche cura le ferite emotive del paziente e permette un cambiamento nel modo in cui una persona organizza la propria esperienza (Orange D. M. 2001). Seguendo l’ipotesi della simulazione incarnata, Gallese, Migone e Eagle (2006) propongono che “la risposta accuratamente sintonizzata al paziente viene da lui automaticamente simulata e rinforza la sua sensazione di essere in connessione con l’altro, dandogli anche la possibilità di chiarire e articolare meglio i propri sentimenti, il che contribuisce a rafforzare il suo senso di sé”. Questa posizione mi pare pienamente condivisibile e inoltre risponderebbe all’idea kohutiana per cui la possibilità di raggiungere una competenza introspettiva, attraverso l’empatia, rappresenta in psicoterapia sia la trasformazione matura del narcisismo sano, ma soprattutto una raggiunta capacità di comprensione dell’altro e dei suoi stati psicologici, ovvero

l’acquisizione di una capacità empatica.
Proseguono gli autori (Gallese, Migone, Eagle 2006): “si noti che quello che stiamo descrivendo è un andirivieni continuo di simulazioni incarnate: la risposta sintonizzata del terapeuta al paziente, che in se stessa è basata sulla simulazione delle emozioni di quest’ultimo, stimola a sua volta nel paziente la simulazione della risposta del terapeuta. Questo processo aiuta il paziente a “vedere”, nella risposta del terapeuta, i propri stati mentali come pure l’esperienza di modulazione e di contenimento di questi stati”.
Partendo da queste considerazioni sulla simulazione incarnata, ci si potrebbe porre il l’obiettivo di comprendere come mai vi siano differenze tanto sostanziali nelle funzioni empatiche delle persone, tanto che l’analisi delle capacità empatiche ed autoriflessive è un criterio con il quale valutiamo la salute mentale dei nostri pazienti. Lo stesso Gallese (2007) afferma: “una delle sfide future sarà quindi passare dalla “medietà normativa” delle caratteristiche di attivazione di un supposto cervello medio appartenente ad un altrettanto paziente medio, ad un approfondito studio di come le caratteristiche individuali dell’esperienza di vita si traducano in caratteristici profili di attivazione corticale […]. Dovremo passare da uno studio della mente umana a uno studio delle menti umane”. Una prima risposta a questo quesito la troviamo nel medesimo articolo di Gallese, Migone e Eagle del 2006: gli autori ipotizzano che il bambino attivi nella madre una simulazione automatica del suo stato mentale; se la reazione della madre è in sintonia con lo stato mentale del bambino, la simulazione del bambino sarà congruente con la sua sensazione iniziale, generando una maggiore connessione nella diade ma anche un senso del sé coerente nel bambino. Viceversa, se la reazione materna allo stato mentale del bambino non è sintonizzata con il vissuto iniziale del bambino, allora la simulazione sarà incongruente, generando una disgiunzione tra lo stato mentale iniziale e la reazione simulata della madre. Questo stesso schema può essere applicato alla situazione terapeutica, soprattutto per ciò che concerne il fatto che la madre, così come l’analista col paziente, non si limita a rispecchiare gli stati mentali del bambino: essa aggiunge qualcosa allo stato precedente, ovvero lo regola, costruisce un significato e modifica l’esperienza del bambino, così come l’analista, dopo avere colto lo stato mentale del paziente tramite l’indagine empatico- introspettiva, co-costruisce insieme a lui un significato, modificando l’esperienza stessa nel qui-ed- ora.
Si potrebbe a questo punto ipotizzare che parte della nostra identità sia l’esito del modo in cui la nostra simulazione incarnata degli altri si sviluppa e prende forma sin dalle relazioni più precoci (Ammanniti, Gallese 2014). Queste scoperte hanno grande rilevanza sul piano clinico: gran parte del lavoro terapeutico risiede in quegli angoli dell’esperienza che hanno ben poco a che vedere con gli aspetti espliciti della relazione.
Per concludere, la scoperta del meccanismo specchio e dei meccanismi di simulazione tra individui

stabilisce con chiarezza non solo che l’interoggettività è un costrutto che fonda la condizione umana, ma conferisce un primato al corpo come principale mezzo attraverso il quale gli esseri umani giungono a conoscere la mente degli altri (intercorporeità): vi è una prima forma basilare di mentalizzazione che non richiede il coinvolgimento di canali simbolici e che ci permette di esperire gli altri come simili a noi sulla base di rappresentazioni corporee (Ammanniti, Gallese 2014). La rilevanza che ha per gli psicoterapeuti la teoria della simulazione incarnata risiede nella possibilità di portare in primo piano il corpo e i suoi processi, prestando attenzione nella pratica clinica agli aspetti relazionali impliciti che riguardano la regolazione degli affetti e la costruzione di un legame affettivo riparativo.

Bibliografia

Ammanniti, M., Gallese, V., La nascita dell’intersoggettività. Raffaello Cortina Editore, 2014; Beebe B., Lachmann F.M. (2002), Infant Research e trattamento degli adulti: un modello sistemico- diadico delle interazioni, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2003;
Bucci W., “Sintomi e simboli: la somatizzazione secondo la teoria del codice multiplo”, in Psychoanalytic Inquiry 1997; 17(2), 151-172;
Gallese V., Migone P., Eagle M. N., “La simulazione incarnata: i neuroni specchio, le basi neurofisiologiche dell’intersoggettività ed alcune implicazioni per la psicoanalisi”, Psicoterapia e Scienze Umane, 2006, XL, 3: 543-580 ;
Gallese V., “Dai neuroni specchio alla consonanza intenzionale”, in Rivista di Psicoanalisi, 2007, LIII, 1, 197-208;
Kohut H., La cura psicoanalitica, Bollati Boringhieri, Torino, 1986;
Orange D. M., La comprensione emotiva, Casa Editrice Astrolabio, Roma, 2001;
Stern D, N., Il momento presente nella vita e in psicoterapia, Raffaello Cortina Editore, Milano 2005.

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